Il termine workaholism (o work addiction) viene utilizzato per indicare la dipendenza da lavoro, ovvero un coinvolgimento eccessivo e privo di limiti nella situazione lavorativa. Questa forma di dipendenza è spesso legata alla propria storia personale.

Il workaholism è una vera e propria dipendenza da lavoro. Il termine è stato utilizzato per la prima volta nel 1971 da Wayne Oates nel suo libro Confessions of a Workaholic e fa riferimento ad una sorta di “ubriacatura da lavoro”, proprio per le analogie che questa patologia ha con la dipendenza da alcool.
Brian E. Robinson (1998) definisce il workaholism come un disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, una scarsa o nulla capacità di regolare le proprie abitudini e confini di lavoro, fino alla progressiva riduzione se non esclusione delle altre principali attività della vita.
Come ricorda Castiello d’Antonio (2010), la dipendenza da lavoro è stata etichettata come la well-dressed addiction (la dipendenza ben vestita) ovvero una dipendenza pulita, rispettabile se non approvata e rinforzata nel nostro attuale sistema produttivo. Anche per questo risulta ancor più insidiosa di altre dipendenze e difficile da curare.
Workaholism, lavoro e confini
Il workaholism può essere messo in relazione con il sistema socio-economico e culturale attuale.
Uno dei cambiamenti più profondi che hanno caratterizzato l’esperienza del lavoro negli ultimi decenni è stato il progressivo sgretolamento dei confini tra vita e lavoro. La tecnologia ha abbattuto in confini fisici e temporali, per cui si può lavorare sempre o ovunque, col rischio di utilizzare spazi e tempi che sarebbe salutare utilizzare per altri scopi, come la cura degli affetti, delle amicizie, della comunità, della propria condizione fisica.
La globalizzazione ha reso possibile e necessario interagire con persone di altre nazioni, che hanno altri orari, altre culture del lavoro, altre abitudini, altri calendari.
Infine, il lavoro soprattutto nella società occidentale ha assunto sempre di più una funzione identitaria e non solo strumentale: si lavora non soltanto per procurarsi da mangiare ma per avere un’identità, un ruolo nella società, per dimostrare il proprio valore, per dare espressione alle proprie attitudini, per socializzare.
Lo sgretolamento e l’incapacità a mettere dei confini genera patologie legate alla dipendenza. In assenza di confini la relazione tra sé e il mondo esterno non ha una giusta distanza e diventa eccessiva e totalizzante: la relazione morbosa con una persona, la dipendenza da una sostanza come l’alcool o la droga, la dipendenza da una situazione come il gioco o il lavoro.
Workaholism e relazioni di dipendenza
Alla base della dipendenza da lavoro, come di altre forme di dipendenza, c’è un problema di relazione e un vuoto da colmare.
Per le persone che sviluppano dipendenze la relazione con una fonte di piacere è disregolata, arriva all’eccesso fino a diventare paradossalmente distruttiva. Il rapporto con qualcosa che dovrebbe essere fonte di benessere e piacere si trasforma in qualcosa che annichilisce.
Ciò è solo in apparenza paradossale, poiché in una relazione di profonda dipendenza è come se la propria sopravvivenza fosse indissolubilmente legata a qualcosa o qualcuno a cui mettiamo a disposizione la nostra stessa esistenza.
Workaholism: c’è un vuoto da colmare?

Si dice che dove c’è un troppo c’è un troppo poco. Un eccesso di coinvolgimento nel lavoro potrebbe essere indicativo di una insoddisfazione o deprivazione in altri ambiti della propria vita. Ciò non significa che tutti coloro che sono insoddisfatti di ciò che gli accade fuori dal lavoro rischino di sviluppare una dipendenza da lavoro. Ognuno ha il proprio modo di fronteggiare le insoddisfazioni, sulla base del carattere che ha sviluppato a partire dalla storia vissuta.
Per alcune persone l’insoddisfazione e la mancanza attuale può entrare in risonanza con una deprivazione significativa sperimentata nel corso della propria storia, spesso dolorosa al punto da essere emotivamente dissociata. Non è infrequente, nella mia esperienza, che in avvio di percorso analitico la persona non ricordi o non abbia del ricordo di deprivazione un’emozione dolorosa. Nella dipendenza da lavoro il vuoto da colmare, che sul piano affettivo è di riconoscimento, di considerazione, di stima viene riempito con attività, progetti, sfide sempre più impegnative, che restituiscono ammirazione, valore e successo. Ma è un appagamento effimero, che non ripara e non riempie, se non temporaneamente, e che necessita di un continuo rinnovo che sarà in ogni caso insufficiente.
È questa la drammaticità delle dipendenze, che dando un’illusione di riparare una ferita ancora aperta, la rinnovano e la rendono ancor più dolorosa.
Workaholic, engagement e consapevolezza
I workaholic hanno quasi sempre un grande successo professionale e sono molto ammirati, soprattutto nella nostra società e nelle nostre aziende.
Non è sempre facile tracciare un confine tra un livello elevato di engagement, ovvero di coinvolgimento e passione professionali, e il workaholism. Così come non necessariamente una persona che lavora molto, quella che gli inglesi chiamano hardworker, è tale perché ha sviluppato una dipendenza da lavoro. Il confine è dato dalla consapevolezza di ciò che sta accadendo e dalla capacità di recuperare il senso del limite, riappropriandosi di quegli spazi che il lavoro ha piano piano eroso e annullato.
Non è sufficiente la consapevolezza e l’intenzione di voler smettere. Anche nella dipendenza da lavoro come per altre dipendenze, la persona crede di poter controllare la situazione da cui dipende e di poter smettere quando vuole. In realtà, questo momento non arriva mai ed è ogni volta rinviato. In questi casi, possiamo dire con certezza che si è di fronte ad una dipendenza da lavoro.
Castiello d’Antonio A. (2010), Malati di lavoro. Cos’è e come si manifesta il Workaholism. Cooper, Roma.
Robinson B. E. (2014), Chained to the Desk: A Guidebook for Workaholics, Their Partners and Children, and the Clinicians Who Treat Them. NYU Press, New York.