“Le parole che ci salvano” di Eugenio Borgna è un libro che parla di emozioni fragili e di parole, e di come coltivare le une con le altre. E se la fragilità fosse fraintesa e mal considerata anche nel mondo del lavoro? mi sono chiesto.
Se sono premianti la certezza, la tenacia, la potenza come si può accogliere la fragilità in quei contesti in cui non è ammessa o è mal tollerata?
Come sarebbero le relazioni, e le relazioni al lavoro, se fossimo tutti un po’ più capaci a tollerarci e a dare valore alle reciproche fragilità?
Fragilità da comprendere
“La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e antiquata, immatura e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi.” *
La fragilità non ha soltanto una accezione negativa ed è parte costitutiva dell’esperienza umana. Per questo prenderla in considerazione significa fare i conti con la realtà, sia quella intima e personale sia quella delle relazioni con gli altri. Escluderla vuol dire rimuovere qualcosa che c’è ma che non si può nominare, e come recita l’adagio quel che esce dalla porta rientra dalla finestra. La fragilità non ammessa viene rimossa, proiettata, prende altre forme e finisce per farci ammalare.
Fragilità al lavoro
Anche nel lavoro ci sono sensibilità da proteggere, cedimenti da sostenere, delicatezze effimere da coltivare, senza collusione ma con rispetto. Ci sono poi fragilità mal celate o travestite da certezze che rischiano di fare ancora più danno proprio perché indicibili o inconsapevoli.
La fragilità è parte costitutiva delle dinamiche organizzative. Lo si vede molto bene nei cambiamenti dove la sicurezza lascia il posto al dubbio, l’identità alla disidentità e la motivazione allo sconforto, con cambi di direzione rapidi e scostanti. Ma è proprio in questo andare ondivago, e nella capacità di tollerarlo, che si genera la trasformazione: è la speranza, emozione fragile, che annuncia il nuovo.
La formazione come terapia?
Nel lavoro, salvo rare eccezioni, non ci sono luoghi e momenti in cui la fragilità possa essere nominata e accolta. Le parole, soprattutto negli slogan manageriali, sono dure, forti, potenti. Non c’è tempo (emotivo più che cronologico) per l’indecisione, la delicatezza, la fatica del vivere: ci sono ma non si deve dirlo.
Tuttavia, in alcune occasioni il confronto può farsi più autentico e le parole possono sostenere dialoghi più intimi di quel che la quotidianità lavorativa consenta di fare. La formazione per esempio, concepita in un certo modo, può essere una di queste occasioni. Se la parola “terapia” non fosse così marcatamente connotata di significato medico, potremmo dire che la formazione assume in qualche caso una valenza terapeutica. Quando ad esempio offre uno spazio di confronto sulle sfide e sui sentimenti di potenza o di impotenza, dove poter nominare paure e speranze in altri luoghi non dicibili ed elaborare fragilità professionali che altrimenti resterebbero indigeste e senza possibilità di soluzione.
Fragilità e psicoterapia del lavoro
Il lavoro è una sfida emotiva ancor più che operativa o tecnica, e mette alla prova vulnerabilità e fragilità scritte nella storia di ciascuno. Ma nei rapporti professionali si è poco tolleranti di fronte ai cedimenti e alle fragilità, anche alle proprie. Da un lato il mondo del lavoro non lo consente, dall’altro anche la nostra competenza emotiva fatica a sostenerlo e quindi cerchiamo di evitare di pensarci, e andiamo avanti. Pur essendo una risorsa spesso preziosa si è tentati a “non considerare la fragilità come umana esperienza dotata di senso ma come espressione più, o meno, dissonante di malattia, di una malattia che non può essere se non curata”.
La terapia non è soltanto cura di ciò che è malato e da riportare in salute secondo i criteri diagnostici in uso. La terapia ha spesso lo scopo di aiutare le persone a dare una forma diversa a sentimenti, pensieri e azioni che creano disagio, sofferenza e impediscono la realizzazione dei propri desideri. Quando la terapia ha a che fare con il lavoro e la fragilità facilita questa trasformazione, tenuto conto della necessità di fronteggiare anche le dinamiche organizzative con strategie di comportamento concrete. Le emozioni e le parole servono quindi al dialogo terapeutico ma in oscillazione tra mondo interno e modo esterno, tra riflessione a progettazione di azioni adeguate.
Fragilità come invito alla relazione
“La coscienza della nostra fragilità, della nostra debolezza e della nostra vulnerabilità (sono definizioni, in fondo, interscambiabili) rende difficili e talora impossibili le relazioni umane: siamo condizionati dal timore di non essere accettati, e di non essere riconosciuti nelle nostre insicurezze e nel nostro bisogno di ascolto, e di aiuto. La nostra fragilità è radicalmente ferita dalle relazioni che non siano gentili e umane, ma fredde e glaciali, o anche solo indifferenti e non curanti.” Finiamo così per farla scivolare nella zona nascosta sostenendo un gioco delle parti poco autentico.
C’è in questo una doppia responsabilità: accogliere le fragilità degli altri e accettare di più le nostre. Se riuscissimo a perdonarci alcune fragilità saremmo forse meno giudicanti e più in grado di comprendere quelle degli altri, e viceversa. Sarebbe forse questa la premessa a relazioni non collusive ma più solidali, dove le difficoltà, le mancanze o i gap di competenza (espressione fuorviante!) diventerebbero motivo di ascolto, relazione e interdipendenza.
La fragilità, in tal senso, diventerebbe un invito incerto e delicato alla relazione che se ascoltato con altrettanta delicatezza e cura potrebbe essere accolto in tutto il suo valore.
* Le parti nel testo virgolettate sono del libro citato all’inizio Le parole che ci salvano di Eugenio Borgna, edito da Einaudi (2017).