Se la parola “psicoterapia” non fosse così marcatamente connotata di significato medico, potremmo dire che moltissime persone nel lavoro prima o poi hanno bisogno di psicoterapia.
Per poter pensare di servirsene senza che ciò abbia carattere di eccezionalità o di estrema ratio dobbiamo allontanarci dall’idea che la psicoterapia sia la “cura dei matti” o che sia un aiuto a cui ricorrere solo nel caso di gravi problemi psichiatrici o di indicibili traumi. O di condizioni di prostrazione psicologica fortemente inabilitanti. Se la pensassimo a questo modo è come se, per fare un parallelo, ci rivolgessimo al medico solo quando la nostra vita è in grave pericolo o andassimo dal fisioterapista solo quando non siamo più in grado di muoverci e camminare o se chiedessimo un consulto all’oculista quando siamo prossimi alla cecità. Ma in questi ambiti non facciamo così.
Dobbiamo anche smettere di pensare, se mai l’abbiamo creduto, che la nostra psiche risponda sempre e comunque al comando razionale che possiamo impartirle: metterci buona volontà, farsi coraggio, pensare positivo, stare più calmi. Anche in questo caso, per fare un parallelo, è come se dopo aver preso una gran botta ed esserci fratturati un braccio dicessimo a noi stessi di non pensarci, che dobbiamo impegnarci a guarire e che il riparare la frattura è solo una questione di buona volontà.
I colpi difficili da incassare
Col lavoro capita frequentemente di prendere delle gran botte, diciamo. Alcune sono lievi e si sopportano, altre sono difficili da incassare. Altre ancora sono molto dolorose e portano in superficie fragilità che non pensavamo di avere, o non fino a quel punto. I grumi emotivi che queste botte di sovente provocano non sono facili da riassorbire. Le fratture non sembrano potersi ricomporre. Ripeterci che non dobbiamo pensarci, che dobbiamo impegnarci per stare meglio, che è questione di buona volontà è quasi sempre illusorio se non pericoloso: rischia di farci sentire in colpa o di allontanare il malessere dalla consapevolezza e dalla coscienza vigile, costringendolo a manifestarsi sotto altre forme (ad esempio per mezzo di acciacchi fisici).
Le nuove sfide del lavoro
Il lavoro, le professioni, le relazioni organizzative dentro e fuori dalle aziende pongono oggi sfide che impattano in maniera diretta sulla struttura psichica delle persone e sulla loro solidità o fragilità. In pochi anni si è passati da condizioni di lavoro “strutturanti”, che offrivano identità, contenimento e sicurezza a condizioni che, al contrario, sfidano la certezza, l’adeguatezza e la possibilità di avere confini chiari del perimetro di gioco: avrò ancora un lavoro in futuro? sono adeguato? sto facendo abbastanza? possono decidere io o devo render conto a qualcuno? mi prendo troppo spazio di libertà o troppo poco? che ne sarà di me?
Tutto ciò ha delle implicazioni psichiche profonde. Per molte persone il poter rispondere adeguatamente a tali quesiti richiede un lavoro di elaborazione emotiva e di ristrutturazione dei propri pattern affettivi e relazionali. Non si tratta soltanto di cambiare punto di vista, di fare di più o meglio, di ingegnarsi con nuove attività e capacità. È una trasformazione molto più profonda che comporta l’analisi, la presa di consapevolezza, la possibilità, necessità, di sciogliere nodi emotivi a suo tempo frettolosamente archiviati e non più elaborati. Comporta la fatica di avventurarsi verso nuovi modi di essere.
Per questo è corretto parlare di psicoterapia del lavoro.
Il lavoro come espressione di sé
Io penso che il lavoro e le organizzazioni siano luoghi nei quali esprimere valori e potenzialità e realizzare parte dei nostri desideri, progetti e attitudini personali. Per molte persone la professione è occasione di riscatto e di emancipazione e le storie professionali sono spesso il completamento e l’evoluzione delle storie personali. Tuttavia, spesso non è così e ciò che si vede da fuori, anche in molte belle carriere e belle aziende, non è fedele a ciò che accade se visto dall’interno.
Rimettere in gioco le parti vitali
La psicoterapia in questi casi può essere un modo per affrancarsi (non è facile!) dalle nostre parti mortifere e rimettere in gioco le parti vitali e creative, al servizio della propria efficacia e del benessere nostro e di coloro che ci stanno intorno, dentro e fuori il lavoro. Si tratta di dare (o ridare) al lavoro la sua valenza espressiva, progettuale, identificante, contattando, se serve, la sofferenza personale e trasformandola in possibilità di andare oltre e andare meglio.
Questo è ciò che intendo con psicoterapia del lavoro.
Il risultato è di avere persone (e organizzazioni) più consapevoli e in salute sul piano delle emozioni e delle relazioni, più soddisfatte e maggiormente capaci di fare bene, per perseguire progetti che bilancino il proprio desiderio, quello degli altri e i vincoli interni ed esterni con cui negoziare forme di futuro possibili.
Vedi anche: consulto psicologico
Caro Christian, sono completamente d’accordo sulla tua analisi della situazione attuale. C’è una sofferenza a cui la semplice formazione, anche la più esperienzialmente declinata sul cliente non può dare. Le persone hanno bisogno di cura, nel senso di un supporto a ricercare e scoprire altre forme.
C’è necessità di ripensare alla propria anima, a nuovi cammini di individuazione.
È un lavoro duro perché è controcorrente in un mondo che ha annullato la propri soggettività nelle competenze. Però bisogna farlo!
Giovanna