Psicoterapia e lavoro: conflitto tra colleghi

conflitto tra colleghiIl conflitto tra colleghi è parte costitutiva delle relazioni al lavoro. Oggi, nella maggior parte delle organizzazioni l’esigenza di mettere insieme velocemente competenze, sensibilità, punti di vista differenti porta inevitabilmente a fare i conti con una tensione in ufficio continua. Quando è fisiologico, il conflitto con i colleghi è produttivo. Quando invece è patologico il conflitto tra colleghi sottrae energie, genera malessere e colpisce le persone nelle loro parti più vulnerabili. Per evitare di esserne sopraffatti non sempre è sufficiente cambiare comportamento ma è necessaria talvolta una cura e una riparazione del sé.

Conflitto al lavoro: fisiologico o patologico? 

Uno degli aspetti che maggiormente influenza la soddisfazione o l’insoddisfazione al lavoro è il rapporto con i colleghi. Quando il rapporto è eccessivamente conflittuale l’esperienza di lavoro diventa demotivante al punto da far mettere in discussione il lavoro in sé, le scelte professionali, il senso di adeguatezza e di autostima.

Il conflitto in ufficio è parte costitutiva delle relazioni al lavoro. L’esigenza di mettere insieme contributi di persone e ruoli diversi genera inevitabilmente tensioni che se ben gestite consentono di apprendere, lavorare bene e progredire. In ufficio c’è sempre una dose fisiologica di conflitto e quando i rapporti sono sani le divergenze vengono facilmente appianate e superate. Non solo: spesso il gioco di collisioni e riparazioni se è accompagnato da uno scambio riflessivo e maturo conduce ad una crescita relazionale, come sostiene lo psicoanalista americano Philip Bromberg.

Un sistema di relazioni è sano e adulto in termini psicologici quando le differenze vengono tollerate e utilizzate per instaurare un rapporto solidale e maturo. In questi casi la valorizzazione di sé e delle proprie idee passa anche dalla valorizzazione degli altri, e viceversa.

Molto spesso capita invece che la tensione tra colleghi travalichi il livello fisiologico e che la conflittualità in ufficio diventi patologica. Le collisioni aumentano le distanze e le differenze di opinione, di sensibilità o di competenza diventano minacce da osteggiare e combattere. Non c’è il tempo e lo spazio adeguati per comprendere le differenze e la tensione viene risolta attraverso l’imposizione della soggettività di qualcuno a scapito di qualcun altro. Nelle relazioni malate la valorizzazione di sé passa sovente dalla svalorizzazione dell’altro.

In questi casi il conflitto tra colleghi è mortificante e genera frustrazione, rabbia e perdita di senso.

Conflitto tra colleghi: conflitto interpersonale e conflitto intrapsichico 

In termini psicologici la capacità e la possibilità di gestire il conflitto al lavoro sul piano interpersonale ha a che fare con la capacità a livello intrapsichico di fare i conti con l’ambivalenza: prima di essere una capacità sociale è una capacità emotiva personale che riguarda il far convivere parti di sé potenzialmente in conflitto.

Questa capacità, che acquisiamo nello sviluppo all’interno di una relazione affettivamente regolata, ci consente tra le altre cose di far convivere nella mente le ambivalenze che riguardano il proprio sé quando sono sollecitate dalle relazioni con gli altri. Nel conflitto al lavoro ad esempio può capitare di dover fare i conti con un’immagine di sé come persona competente ma anche impreparata; come professionista cercata ed esclusa; o ancora come persona responsabile ma anche poco affidabile.

Tenere insieme nella nostra mente queste ambivalenze significa mantenere contemporaneamente la complessità delle esperienze, la molteplicità di relazioni e un’idea di continuità del nostro sé. Questa capacità, che è emotiva prima ancora che cognitiva, ci aiuta ad affrontare più agevolmente i conflitti con gli altri, nel lavoro e più in generale nelle relazioni.

Tuttavia, un eccesso di tensione sul piano interpersonale può essere minacciosa e generare risposte nette e polarizzate, facendo entrare in scena alcuni stati del sé ed escludendone altri, senza averne piena consapevolezza. In questo caso, le ambivalenze su chi ha ragione o chi ha torto, su quanto vale il collega e quanto valgo io, su quanto impormi o quanto lasciar posto agli altri creano una tensione che allarma in modo eccedente il nostro sistema psichico e non ci permette di avere accesso a stati del sé che renderebbero più complessa e adeguata la nostra risposta: ad esempio l’essere egoisti oltre che disponibili, cattivi oltre che buoni, paurosi oltre che coraggiosi, bisognosi oltre che soccorritori.

Conflitto al lavoro e vulnerabilità 

Sul piano psicologico e relazionale quello che fanno gli altri con noi non è mai di per sé problematico. Lo diventa perché entra in risonanza con parti del sé che in qualche modo sono ferite e che se sollecitate ci rendono vulnerabili. Il comportamento degli altri, e il nostro nei loro confronti, è difficile da gestire non perché lo sia in assoluto ma in quanto fa breccia nelle nostre parti vulnerabili, attivando un’emozione disregolata e chiamando in scena un risposta disfunzionale.

Ognuno di noi ha la propria storia e le proprie ferite. Le persone più fortunate sono cresciute in un ambiente che è stato in grado di accoglierle così com’erano e per quel che stavano diventando: calme e irrequiete, educate e spontanee, ordinate e disordinate, sorridenti e lamentose. Frequentemente capita invece che alcune parti di sé non siano state accolte, ma nonostante ciò hanno continuato ad esistere cercando di non mostrarsi, nemmeno a se stessi. Queste sono le nostre parti vulnerabili.

Il conflitto è sempre una tensione tra parti in contrapposizione che cercano uno spazio per esistere. Quando è molto violento ripropone la stessa dinamica di esclusione e ci mette in difficoltà proprio in quegli aspetti che la nostra storia non ha accettato favorevolmente. Cosa facciamo se qualcuno ci provoca sul versante emotivo e la razionalità è stato l’unico modo che abbiamo imparato? Cosa succede se gli altri approfittano del nostro senso di responsabilità, ma proprio la responsabilità nel nostro crescere ci ha reso meritevoli di attenzioni e affetto? Come reagire ai colleghi che ci svalorizzano se il mostrare il nostro valore era presunzione disdicevole per chi ci stava vicino? O come lasciar perdere quando una discussione in ufficio non porta a niente se il lasciar perdere ci ha fin da piccoli ridicolizzati e poco considerati?

Ciò che dovremmo fare non lo riusciamo a fare o se ci riesce è talmente maldestro che sortisce l’effetto contrario.

Gestione dei conflitti e cura del sé 

Parlare di vulnerabilità aiuta a vedere le difficoltà sul piano psicologico e relazionale non come patologia da curare ma come parte da riparare. Nella gestione dei conflitti tra colleghi non sempre è sufficiente l’acquisizione sul piano razionale di tecniche e comportamenti, nonostante siano di aiuto soprattutto quando il conflitto non raggiunge livelli patologici o non sollecita parti del sé vulnerabili. Quando invece avvertiamo che la tensione ci mette a dura prova, soprattutto sul piano emotivo, e sollecita meccanismi interni che non riusciamo del tutto a comprendere e a controllare allora può essere opportuno andare a vedere più in profondità. Ad esempio, attraverso un consulto si può valutare l’opportunità di un percorso di coaching psicologico per identificare le capacità personali implicate nella difficoltà al lavoro e accompagnarne lo sviluppo attraverso azioni e soluzioni concrete.

A volte il percorso di coaching non è sufficiente, quando ad esempio il conflitto con i colleghi rimanda alla propria storia personale e a questioni rimaste irrisolte. In questi casi è più opportuno un aiuto che metta in relazione la propria storia personale con l’esperienza professionale, le difficoltà attuali e passate e le possibilità di evoluzione.

È spesso necessaria una riparazione del sé, come suggerisce lo psicoanalista Kohut, per esplorare quelle ferite che ci rendono più vulnerabili, e ripararle. In questi casi non è fuori luogo parlare di psicoterapia del lavoro per riferirsi a un percorso di esplorazione, conoscenza e cura di sé che a partire da un momento di crisi sul piano professionale aiuta a trovare un nuovo equilibrio, maggiore benessere ed efficacia sia nel lavoro che nella vita privata.

La psicoterapia acquista così un senso formativo: ciascuno di noi nelle esperienze di vita e di lavoro prima o poi incontra parti di sé alle quali sente l’esigenza di dare una nuova forma. La psicoterapia diventa formazione.

In questo modo, come nel kintsugi, la riparazione ci restituisce al mondo più belli e preziosi di prima, più attenti, preparati e capaci di affrontare le dinamiche conflittuali riprendendoci anche al lavoro il piacere che ciascuno di noi ha il diritto di prendersi.

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